La morte del socio nelle società di persone

Disciplina codicistica relativa alla morte del socio

La normativa riservata alla disciplina dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio è contenuta nell’art. 2284 c.c.
Tale articolo prevede che in simili circostanze i soci superstiti debbano, in via alternativa, provvedere alla liquidazione della quota del de cuius a favore degli eredi, oppure procedere allo scioglimento della società, ovvero continuarla con gli eredi stessi, purché sussista il consenso di questi ultimi.

Tuttavia, la clausola di riserva cui il legislatore è ricorso nella formulazione dell’incipit della disposizione in esame ne individua il carattere dispositivo, sicché il contratto di società potrà contemplare delle clausole volte a regolamentare con modalità derogatorie le conseguenze connesse alla morte di un socio.

Cos’è la clausola di consolidazione ?

Una clausola di siffatta natura è, appunto, la c.d. clausola di consolidazione che stabilisce che in caso di morte di uno dei soci la sua quota si accrescerà in proporzione a favore dei soci superstiti.

L’effetto conseguente all’applicazione pratica di tale pattuizione convenzionale è quello di garantire ai soci superstiti un vantaggio in termini economici, soprattutto allorquando il valore attuale ed effettivo delle quote sia di gran lunga superiore rispetto a quello nominale originario, in quanto esse escludono la caduta in successione delle quote del de cuius, attribuendole automaticamente e pro quota ai soci superstiti.

Tipologie di clausola di consolidazione

Le clausole di consolidazione possono essere:

  • pure, che prevedono il mero accrescimento di quota a favore dei soci superstiti senza l’obbligo di liquidare gli eredi del socio defunto;
  • impure che, invece, prevedono l’accrescimento della quota a favore degli altri soci superstiti, i quali sono obbligati a liquidare preventivamente gli eredi del socio defunto, titolari, appunto, di un credito di liquidazione.

La tesi consolidatasi nel tempo è solita escludere la liceità del contenuto delle clausole di consolidazione pure, in quanto estrinsecazione pratica del tentavo di aggirare il divieto di patti successori cui all’art. 458 c.c.

Invero, l’approvazione e il conseguente inserimento nel contratto sociale della clausola de qua implicano la rinuncia preventiva di ogni singolo socio alla propria libertà testamentaria. Libertà che la legge tutela consentendo sempre, sino all’ultimo momento, di revocare il testamento già predisposto, e che non sopporta, perciò, di essere assoggettata a vincoli, sia pure volontariamente assunti.

La clausola di consolidazione pura attribuisce, di fatto, mortis causa la partecipazione del socio deceduto agli altri soci in virtù di una previsione contrattuale, sviando detta quota dal complesso dell’asse ereditario, con ciò integrando un patto successorio istitutivo vietato dall’ordinamento giuridico.

Di contro, le clausole di consolidazione impure sono ritenute valide in quanto preservano il diritto di liquidazione degli eredi a cui viene attribuito e riconosciuto un diritto di credito quale sostituzione implicita dell’oggetto della successione: dalla partecipazione sociale ad un credito di ammontare pari al suo valore.

Tuttavia, si ritiene che in presenza di una siffatta clausola statutaria, l’obbligo di liquidare gli eredi del socio defunto gravi su soci superstiti. Mentre, la società è tenuta alla liquidazione esclusivamente nell’ipotesi in cui sussistano riserve disponibili e sempre che vi sia il consenso di tutti i soci.

Infine, si richiama la tesi dottrinale per cui le clausole di consolidazione costituirebbero a tutti gli effetti delle cessioni di quote sospensivamente condizionate alla premorienza di ciascun socio rispetto agli altri. La peculiarità di tali clausole sarebbe quella di essere idonea a vincolare esclusivamente i soci presenti al momento dell’introduzione della clausola statutaria e non i soci futuri che non abbiano prestato consenso al patto.

Soggetto legittimato alla liquidazione della quota a favore degli eredi

Come si è detto, ai sensi dell’art. 2284 c.c., la morte del socio determina in linea di principio lo scioglimento del rapporto sociale con riguardo a quest’ultimo, in considerazione del carattere intuitu personae che caratterizza la partecipazione del singolo nelle società di persone.

Normalmente, quindi, gli eredi di un socio non entrano nella compagine societaria, ma godono di un diritto di credito avente ad oggetto la liquidazione della quota del socio defunto. Liquidazione che deve essere effettuata entro il termine di 6 mesi dalla morte del socio e sulla base dell’effettivo patrimonio della società e non del valore nominale della partecipazione al capitale.

Con specifico riferimento alla determinazione del patrimonio da cui dovrebbero essere prelevate, ai sensi dell’art. 2284 c.c., le somme da liquidare agli eredi in caso di morte di un socio, occorre precisare che la dottrina dominante ritiene che, in simili evenienze, ogni pretesa creditoria debba essere legittimamente avanzata esclusivamente nei confronti della società. L’art. 2289, comma 2, c.c. infatti, prevede che la liquidazione della quota sia fatta “in base alla situazione patrimoniale della società”.

Il dibattito giuridico su questo punto è stato, invece, caratterizzato dall’avvicendarsi di opinioni contrastanti.

Dibattito giuridico relativo alla liquidazione della quota

In un primo momento la giurisprudenza ha optato per l’interpretazione letterale del disposto dell’art. 2284 c.c.

In virtù della norma “gli altri soci devono liquidare la quota agli eredi…”, si riteneva opportuno affermare che in un eventuale procedimento promosso dagli eredi ai fini della liquidazione della quota loro spettante, la legittimazione passiva fosse riconducibile ai soci superstiti.

Altra soluzione, fatta propria dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è, invece, quella che predilige inquadrare l’onere di liquidazione della quota a favore degli eredi del socio defunto come un debito gravante sul patrimonio sociale.

La Suprema Corte ha infatti rilevato come il dato letterale non possa prevalere laddove si voglia ancorare la singola espressione utilizzata dal legislatore (“gli altri soci devono liquidare”) alla ratio sottesa alla norma nel suo complesso. Ovvero, quella di chiarire quale debba essere la sorte del contratto di società nella peculiare ipotesi di morte di un socio.

La Corte ha, inoltre, affermato che, nonostante l’autonomia patrimoniale delle società di persone sia imperfetta, ciò non esclude che esse godano di capacità sostanziale e processuale con riferimento a tutti quei rapporti esterni riferibili ai beni facenti capo al patrimonio sociale.

Quanto alle obbligazioni assunte dalla società, l’art. 2267c.c. prevede che essa sia chiamata a risponderne con il proprio patrimonio, fatta salva la responsabilità prettamente solidale dei soci che, peraltro, ai sensi dell’art. 2268 c.c., conservano la facoltà di invocare la preventiva escussione del patrimonio sociale.

Si è altresì ritenuto che, ponendo a carico della società l’obbligo di liquidazione agli eredi della quota del de cuius, si rischierebbe di compromettere le aspettative dei creditori sociali rispetto all’integrità del patrimonio della società stessa.

Tuttavia, una corretta interpretazione dell’art. 2289 c.c. impone di quantificare la somma oggetto di liquidazione “in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento e, di conseguenza, solo a seguito del preventivo soddisfacimento dei debiti sociali sorti anteriormente a tale momento.
Del resto, porre a carico dei soci l’obbligo di corrispondere il valore della quota agli eredi, creerebbe per questi ultimi un rischio ancor più elevato, e cioè, quello di poter fare affidamento esclusivamente nelle limitate garanzie offerte dai patrimoni personali dei singoli soci rispetto ad un credito che, di fatto, è sorto e permane nei confronti della società.

L'autrice

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Chiara Cognetti

Sono un avvocato civilista e mi occupo di consulenza legale giudiziale e stragiudiziale in diritto commerciale e in diritto della moda.
Ho conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca.
I miei Clienti spesso mi definiscono “chiara, di nome e di fatto”, oltre che precisa e tempestiva.

Chiara Cognetti

Sono un avvocato civilista e mi occupo di consulenza legale giudiziale e stragiudiziale in diritto commerciale e in diritto della moda.
Ho conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca.
I miei Clienti spesso mi definiscono “chiara, di nome e di fatto”, oltre che precisa e tempestiva.